Storie della porta accanto:

Lavoro coatto

Produzione bellica e crimini dello stabilimento REIMAHG 1944-1945

L’immagine mostra il lager 8 della REIMAHG vicino a Kahla in Turingia. È stata scattata da Ernst Große, all’epoca adolescente, dalla vicina Bibra. Le tende primitive sono state erette nel giugno del 1944 sul prato della sua famiglia.

I contadini erano a conoscenza dell’impiego delle lavoratrici e dei lavoratori coatti a causa del loro impiego nelle proprie mansioni. Questo loro impiego massiccio però le conseguenze dell’ideologia nazista in ogni paese.

copertina

Fonti / Ringraziamento

impronta

Il lavoro forzato prima del Nazionalsocialismo

Il lavoro forzato esiste da quando è nato il lavoro. Soltanto con la nascità della società borghese il lavoro libero come mezzo di realizzazione personale divenne un’ideale. Il lavoro invece eseguito per costrizione si trasformò tra il 1800 e 1900 sempre più in uno strumento di violenza politica.

Nel concetto moderno di lavoro coatto non contano in primo luogo i prodotti creati, ma l’uso della violenza. Essa rinforza lo stato, che la esercita e fa capire alle persone forzate al lavoro che nella società hanno una posizione bassa e
privata dei diritti.

Nel corso del 1800 e 1900 il
lavoro coatto è sempre stato connesso anche con la persecuzione e l‘annientamento razzista. Il nazionalsocialismo
ne fu la forma estrema, che però già allora ebbe precursori storici.

Sistemi di lavoro coatto esistevano soprattutto
nelle colonie tedesche
ed europee. Giustificare il concetto di ‚lavoro coatto‘ divenne importantissimo:

parlando di lavoro coatto
i poteri coloniali riuscivano a delimitarsi dalla schiavitù, che ormai era stata messa al bando. Al lavoro coatto venne attribuito una funzione educativa,
mentre la schiavitù venne
descritta come retrograda e primitiva. In
tale modo gli stati coloniali giustificavano la violenza eseguita nell’ambito dei loro regimi di lavoro coatto come parte della loro presunta attività di civilizazzione.

Se ci fu un passaggio diretto di esperienze sul lavoro coatto dalle colonie tedesche al nazionalsocialismo
resta nella ricerca un‘argomento controverso. Fatto
sta che per quanto riguarda i modi di lavoro coatto si riscontrano aspetti simili e caratteristici tra le colonie
e i sistemi di lavoro nel nazionalsocialismo e altri sistemi di lavoro forzato.

Cosa vuol dire ‚lavoro forzato‘?

‚Lavoro forzato‘ vuol dire che una persona viene costretta al lavoro con delle misure economiche, cioè non riceve una paga,
e con delle misure di costrizione statali, cioè violenza.

Il rapporto di lavoro esiste per una durata indefinita e non può essere terminato direttamente dal lavoratore coatto. In più le persone che sono costrette al lavoro forzato hanno pochissimo o non hanno per niente la possibilità di influenzare o cambiare le condizioni del lavoro.

Prigionieri di guerra Herero nel campo di concentramento dello Swakopmund,
Album fotografico di Friedrich Stahl
(Inv. E1/322, n. 45), ©Stadtarchiv Norimberga

Il Nazionalsocialismo

Il periodo tra 1933 e 1945, in cui Adolf Hitler – all’inizio come Cancelliere del Reich, poi come autonominato ‚Führer‘ – era al potere assieme al suo partito NSDAP, viene chiamato oggi nazionalsocialismo. . Il nazionalsocialismo non era un ideologia omogenea – era in se molto contradittoria e comprendeva correnti diverse. Esse però avevano una cosa in comune: si basavano sull‘idea che gli uomini non sono di egual valore.

Le persone che non facevano parte della visione del mondo dei nazionalsocialisti basata sul razzismo, antisemitismo e darwinismo sociale vennero escluse, sempre più perseguitate e infine spesso uccise.

Soprattutto persone che secondo criteri nazisti venivano riconosciute come ebree, slave o disabili o riconosciute come minoranze come ad esempio i rom, furono vittime di questa politica di persecuzione e annientamento. In più la politica nazista colpì oppositori politici, omosessuali, testimoni di Geova, persone che non avevano un lavoro fisso oppure non pagavano gli alimenti ai propri figli oltre a tanti altri. Ma anche per chi fece parte della società nazionalsocialista fu una società radicalmente gerarchica:

si basava su violenza, rivalutazione, disprezzo, obbligo di rendimento e militarismo.

La visione del mondo nazionalsocialista mirava alla guerra. Nella Seconda Guerra Mondiale la violenza, parte integrale dell’ideologia nazista, si poté espandere pienamente – e andò molto oltre a quella usata consuetamente nelle guerre. Più
di 60 milioni di persone morirono tra il 1939 e il 1945 durante le battaglie, più di 13 milioni di persone vennero uccise nell’ambito della politica nazista di persecuzione e di annientamento.

La dimensione criminale e violenta del nazionalsocialismo non si fece vedere soltanto nella guida politica ad alto livello o nell’ambito di operazioni belliche. Emancipazione ed esclusione, gerarchia e la privazione dei diritti, profitto e sfruttamento, persecuzione e violenza privata, deportazione e assassinio ebbero luogo anche nel locale e quotidiano, sul posto, nella vicinanza, in Turingia come in altri luoghi del paese.

Darwinismo sociale

Il concetto del Darwinismo sociale risale al naturalista Charles Darwin (1809-1882), le cui nozioni prese dal mondo animale vennero trasferite sull’uomo – tra esse l’idea che il più forte si impone. Quello che viene criticato al darwinismo è la trasmissione acritica e difettosa di queste nozioni biologiche sulle società umane. Al giorno d‘oggi il concetto si applica per una prospettiva misantropica su minoranze e persone di scarsa disponibilità finanziaria

Persecuzione antisemita e antiziganista

Nel periodo del nazionalsocialismo le persone che facevano parte di un gruppo indesiderato all`ideologia nazista vennero perseguitate e in molti casi uccise. Ciò che più contava erano i criteri e la classificazione fatta dai nazisti – l’appartenenza ad un certo gruppo dal proprio punto di vista non aveva per i nazisti nessuna importanza. Determinanti per la persecuzione furono le »Leggi di Norimberga« del 1935 con le loro categorizzazioni razziste poiché come ebreo od ebrea la autonominazione o la confessione non giocò nessun ruolo.

Anche per la persecuzione di membri di gruppi rom fu decisivo lo sguardo dal di fuori – uguale se la persona in riguardo si riconosceva come rom, sinto, manouche o calé o se del tutto fuori dalla parte delle società rom, quest`ultima non veniva considerata.

Queste persone vennero perseguitate a causa dell’antisemitismo e dell’antiziganismo, non base loro caratteristiche o appartenenze.

Entrata dell’esercito tedesco nel Sudetenland, i territori germanofoni ai bordi settentrionali, meridionali e orientali dell’attuale Repubblica Ceca.

Fonte: Bundesarchiv, Bild 137-004055 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5418581

Manifesto di propaganda di Sauckel »La Turingia è terra di Hitler«.

Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File :SauckelAufruf.jpg

Motivo di arresto della polizia anticrimine nell’ambito dell’azione »Arbeitsscheu Reich«, estate del 1938:

»[…] S. è conosciuto come persona con poca voglia di lavorare, che costretto al lavoro soltanto dalla necessità ogni tanto lavora per poter vivere. Riceve un sussidio e quindi è un peso per la società. […] è conosciuto come alcolizzato.«

L’azione »Arbeitsscheu Reich«

Nel giugno del 1938 la polizia anticrimine condusse un’azione chiamata »Arbeitsscheu Reich« (cioè: »Persone dissidenti al lavoro nel territorio del Reich«). Più di 10.000 persone definite »asociali« vennero portate in campi di concentramento. Si trattò soprattutto di persone senza tetto oppure persone povere e dipendenti d´alcol, ma anche persone che non pagavano gli alimenti per i propri figli. In più vennero arrestate molte persone perseguitate come rom. Il numero dei prigionieri nei campi di concentramento si raddoppiò. Vennero eseguiti anche massici arresti di ebree ed ebrei; soltanto nella sola Berlino vennero arrestate tra le 1000 e 2000 persone. Il motivo che scatenò questa azione fu un discorso antisemita del ministro della propaganda Joseph Goebbels il 10 giugno 1938.

Anche dopo l’estate del 1938 la polizia anticrimine continuò ad arrestare uomini e donne visti come »asociali« e a trasportarli nei campi di concentramento. Agli uomini si rimproverava soprattutto il loro comportamento valutato insufficiente rispetto al lavoro, alle donne il loro comportamento nella vita sessuale.

Restrizioni per il cambio del posto di lavoro e »lager per l’educazione al lavoro«

Con l’inizio della guerra venne rilasciato il »Decreto sulla restrizione del cambio del posto di lavoro«. D’ora in poi il proprio posto di lavoro poteva essere cambiato soltanto con il consenso dell’ufficio di collocamento. Questa e altre misure come tagli sullo stipendio o prolungamenti del tempo di lavoro facevano arrabbiare la popolazione. Alla crescente pressione una parte dei lavoratori rispose con il rallentamento del lavoro. La guida del regime nel 1940 reagì con l’istallazione dei cosi detti »lager per l’educazione al lavoro«. Essi dipendevano dalla Gestapo (La »Geheime Staatspolizei«, la polizia segreta dello stato, cioè la polizia politica). Persone resistenti ci venivano rinchiuse fino ai 56 giorni sotto un regime di lavoro forzato durissimo.

Negli anni seguenti su tutto il territorio veniva istallato un sistema di questo tipo di lager. All’inizio la maggioranza degli detenuti erano tedeschi, più tardi erano
deportati da altri paesi costretti al lavoro forzato.

Nel suo diario Goebbels notò: »Parlato davanti a 300 ufficiali della polizia. Li ho aizzati in maniera clamorosa. Contro ogni sentimentalismo. Non la legge conta, ma l’angheria. Gli ebrei devono sparire da Berlino. E la polizia mi aiuterà.«

Fonte: Elke Fröhlich (Hg.): Die Tagebücher von Joseph Goebbels, Teil 1: Aufzeichnungen 1923 – 1941, Band 5: Dezember 1937 – Juli 1938, München 2000, S.340f.

Costrizione al lavoro per appartenenti del Reich

Nel Nazionalsocialismo lavorare non significò per tutti la stessa cosa. Gruppi perseguitati furono costretti al lavoro forzato, il lavoro di tedeschi che passavano per »ariani« era visto come »servizio d’onore al popolo tedesco«. L’ideologia razzista copriva le contraddizioni sociali e creava delle pretese per perseguitare parti non gradite della popolazione.
All’inizio le persone, che secondo l’ideologia nazista non erano ben viste, vennero escluse dalle loro professioni e dal lavoro in generale.

1935 »Rechsarbeitsdienst« costrinse

Par. 1 (2): »Tutti i giovani tedeschi di entrambi i sessi sono obbligati a servire il loro popolo nel Reichsarbeitsdienst.«

Paragrafo 3 (1): »Il Fùhrer e il Cancelliere del Reich determinano il numero di funzionari da chiamare ogni anno e determinano la durata del servizio«.

Gli oppositori politici furono i primi che vennero costretti al lavoro forzato nei campi di concentramento. In modo indiretto i campi ebbero un ruolo fondamentale per la messa in disciplina, l’intimidazione e il controllo su tutti i lavoratori – molte persone avevano paura di essere portate in un lager.

Alla maggior parte della popolazione ebrea tedesca fino al 1938 fu tolta la base economica della loro esistenza tramite il boicottaggio e divieti di esercitare la loro professione. Durante i progrom nel novembre 1938 centinaia di persone vennero uccise, circa 30.000 vennero portate nei campi di concentramento, le sinagoghe, negozi e case vennero distrutte. Questi pogrom segnarono il passaggio dall’esclusione sistematica di ebree e ebrei alla loro persecuzione violenta Anche i membri delle minoranze rom vennero sistematicamente privati dei loro diritti, esclusi e deportati.

I nazisti limitavano i diritti al posto di lavoro anche alle persone non esplicitamente perseguitate. Subito dopo le elezioni nel 1933 i sindacati vennero sciolti e sostituiti dalla cosi detta »Deutsche Arbeitsfront«, il fronte tedesco del lavoro. Esso non era un sindacato, ma un organizzazione creata per il controllo sui lavoratori sul posto di lavoro ma anche nel tempo libero, tentando in più di convincerli sul compimento degli obiettivi nazisti.

Il diritto allo sciopero venne abolito. Passo per passo venne installato un sistema che costrinse anche le parti non perseguitate della popolazione al lavoro.

  • 1935: il cosi detto »Rechsarbeitsdienst« costrinse delle persone a lavori che a volte erano di durata indeterminata, per esempio nelle costruzioni stradali oppure nell’agricoltura.
  • 1936: il »libro del lavoro« ridusse la libera scelta del posto di lavoro e permise il controllo sui lavoratori.
  • 1938: L’»obbligo del servizio« era un mezzo per obbligare delle persone a incarichi di »particolare importanza politica«, a partire dal 1939 persino in modo indeterminato.

 

Lager del »Reichsarbeitsdienst«, il »servizio di lavoro«, che costrinse delle persone a lavori che a volte erano di durata indeterminata, reparto 6/141 a Bad Liebenwerda.

Fonte: https://de.wikipedia.org/wiki/Datei:RAD_Wachablösung.jpg (CC-BY-SA 3.0)

Serie di fotografie sulla costruzione di un impianto per giardinaggio nell’inverno del 1944.
I lavori furono soprattutto eseguit eseguiti da lavoratrici e lavoratori dall’Europa dell’est.
Sullo sfondo si può vedere il cantiere REIMAHG.

Il lavoro forzato e la deportazione nel Reich

Il lavoro forzato nel Nazionalsocialismo

Durante la seconda guerra mondiale il sistema del lavoro forzato veniva ampliato in modo massiccio. Il numero delle forze lavorative tedesche si abbassò da 39 milioni nel 1939 a 29 milioni nel 1944. La causa fu soprattutto la chamata alle armi.

Nel corso della guerra una settimana lavorativa di 60 ore divenne la regola, a volte vennero richieste anche 72 ore. L’industria tedesca forzava al lavoro coatto sempre più persone provenienti dai territori occupati. Senza di loro soprattutto l’industria di armamento a partire dal 1942 non sarebbe più stata in grado di funzionare. Durante la guerra il sistema del lavoro forzato si espandeva su tutta l’Europa: più di 20 milioni di persone – uomini, donne e bambini – da quasi tutti i paesi europei erano costretti al lavoro coatto nel territorio del Reich o nei paesi occupati. Circa due milioni e mezzo di essi non sopravissero.

I deportati lavorarono in innumerevoli luoghi: nell’industria di armamento, nei cantieri, nell’agricoltura, nelle case private. Tutta la popolazione tedesca poteva incontrarli. Il territorio del Reich era coperto da una fitta rete di lager di tipo diverso. Lo sfruttamento di queste persone rendeva possibile alla Germania nazista di tener in funzione la sua economia e di garantire un rifornimento relativamente stabile alla popolazione tedesca. La storia del lavoro forzato mostra chiaramente il carattere del nazionalsocialismo: la classificazione razzista delle persone, un orientamento radicale sul rendimento, gerarchia, violenza e sottomissione.

Reclutamento e deportazione

Con l’assalto alla Polonia nel settembre del 1939 il lavoro forzato si estese ancora di più – al di fuori del Reich soprattutto nei primi anni della guerra, poi anche all’interno. Il numero delle lavoratrici coatte e dei lavoratori coatti aumentò fortemente negli anni seguenti. Responsabili per il reclutamento delle lavoratrici e dei lavoratori nei paesi occupati erano gli uffici di collocamento, la polizia e l’esercito tedesco, la Wehrmacht.

Le condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici coatte e dei lavoratori coatti dipendevano soprattutto da due fattori: dalla loro classificazione secondo i criteri razzisti del regime e dalla guerra e i suoi bisogni economici. A volte questi due fattori erano in contraddizione l’uno con l’altro. Per esempio nel 1942 non c‘erano più abbastanza prigionieri di guerra a disposizione per il lavoro forzato.

Perciò si discusse sull’impiego della popolazione civile sovietica – ma nello stesso periodo fu pianificato e realizzato l’annientamento della popolazione ebrea europea. Anche se veniva sfruttata la loro forza lavorativa, il loro annientamento ebbe priorità.

Il campo di concentramento Dora vicino a Nordhausen.
»Annientamento mediante il lavoro« è un concetto del sistema dei campi di concentramento nazionalsocialista.
Fonte: Library of Congress Washington.

Depliant di propaganda »L’Europa lavora in
Germania«, 1943.

Fonte: Archiv GF Walpersberg e.V.

Sfruttamento e annientamento

La mancanza di forza lavorativa rappresentò un pericolo per poter continuare la guerra. Ciò nonostante presso i responsabili spesso prevalevano posizioni razziste, così che le riflessioni economiche passavano in secondo piano.

Le intenzioni di annientamento si fecero vedere in modo più evidente verso il popolo ebreo, anche se una politica dell‘»annientamento tramite il lavoro« venne richiesta anche contro altri gruppi.
In fine da parte dei nazisti si imposero quelli che per motivi economici ritenettero irrinunciabile l’impiego dei deportati polacchi e sovietici durante la guerra. Soprattutto rispetto alle parti ebree della popolazione questa politica significò solamente una proroga temporanea della loro uccisione. Persone perseguitate per motivi antisemiti e antiziganisti vennero uccise nonostante il fatto che c’era bisogno della loro forza di lavoro. L’annientamento ebbe sempre la precedenza.
L’abilità al lavoro fu soltanto un criterio decisivo per il momento dell’uccisione.

Mappa dello spostamento in Turingia dell’industria rilevante per la guerra.
Fonte: Archivio Markus Gleichmann.

Lo spostamento dell’industria bellica sotto terra e

la nascità della REIMAHG

Nella seconda metà della guerra la produzione bellica venne sempre più spostata in stabilimenti sotterranei per proteggerli dagli attacchi aerei. Fino all’inizio del 1945 più di 900 stabilimenti vennero spostati o venne pianificato il loro spostamento – il tutto con la premurosa collaborazione dell’industria. Queste operazioni costarono la vita a migliaia di lavoratori coatti, lavoratrici coatte e persone deportate nei campi di concentramento.

La REIMAHG fu un punto focale del lavoro forzato. Nel 1942 Fritz Sauckel, allora NSDAP-Gauleiter, cioè capo di una suddivisione amministrativa dello stato, in questo caso della regione Turingia, divenne Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz, cioè responsabile generale per l’impiego di manodopera. Con ciò fu responsabile per la deportazione e schiavizzazione di più di sette milioni di persone.

In più fu presidente della Fondazione Gustloff, uno dei gruppi industriali di armamento tedeschi più grandi. Nel 1944 venne fondata la REIMAHG come società affiliata degli stabilimenti della Gustloff. C’erano tre luoghi di produzione: Kahla, Kamsdorf e Krölpa. Il nome deriva dalle lettere iniziali del nome e titolo REIchsMArschall Hermann Göring.

Per lo stabilimento venne scelto la collina Walpersberg vicino a Kahla. A causa dell’estrazione di sabbia per porcellane esisteva già un sistema di gallerie ampliabile.

A partire dall’11 aprile del 1944 cominciarono i lavori al Walpersberg. Sotto terra venne ampliato il sistema delle gallerie, in superficie vennero costruiti dei bunker e creata l’infrastruttura per lo stabilimento di armamento.

L’architetto Georg Schirrmeister proveniente dalla vicina Jena ricevette l’incarico di costruire una pista di volo sulla collina. Della direzione principale dei lavori si occupò l’ufficio di architettura di Ernst Flemming di Weimar.

Lo scopo della REIMAHG era la produzione in serie dell’aereo da caccia Me 262. Questo aereo nella Seconda Guerra Mondiale fu il primo aereo a reazione che venne prodotto in serie. Secondo le progettazioni avrebbero dovuto partire dalla collina circa 1200 aerei al mese. Nelle gallerie del Walpersberg però l’aereo non venne mai prodotto. Soltanto in quattro bunker provvisori nel lato sud della collina fino alla fine della guerra vennero prodotti circa 20 a 30 aerei da caccia da elementi prefabbricati. Il loro impiego non fu decisivo per la guerra. Nelle progettazioni iniziali si prevedeva anche la costruzione degli aerei Focke-Wulf Fw 190 e Focke-Wulf Ta 152 e dell’ala volante Horten, ma tutto ciò infine non venne realizzato.

Walpersberg. I bunker sul lato sud.
Fonte: Archivio comunale di Großeutersdorf.

Bunker 1 al Walpersberg. Sino alla fine della guerra furono erretti quattro capannoni per il montaggio degli aerei.
Fonte: National Archive Washington.

La consegna del potere a Kahla

Nel 1930 a Kahla venne fondato un gruppo locale del partito nazista, la NSDAP. Alle elezioni per il il parlamento nazionale, il Reichstag, nel marzo del 1933 la NSDAP

prese marcatamente meno voti della democrazia sociale. Ma ciò nonostante il 2 maggio del 1933, come in tutto il Reich, a Kahla la casa del sindacato, che all’epoca si trovò nel »Rosengarten« venne occupata dalle truppe delle SA.

Gli impiegati vennero arrestati. Già tanto tempo prima del pogrom del 9 novembre del 1938 a Kahla i negozi ebraici vennero boicottati; chi ci fece la spesa venne diffamato pubblicamente. Nel novembre del 1938 le persone perseguitate in modo antisemita vennero deportate da Kahla a Buchenwald. La fabbrica di porcellane ricevette varie onorificenze nazionalsocialiste, per esempio il titolo
»Impresa d’onore nazionalsocialista«, per la quale fu condizione che più di cinquanta percento dei lavoratori divenissero membri del partito nazionalsocialista o di una delle sue organizzazioni. SA: Le Sturmabteilung o SA (letteralmente »reparto d’assalto«) – furono il primo gruppo paramilitare del Partito Nazista. Ebbe un ruolo decisivo per la resa dei nazisti.

La deportazione alla REIMAHG

Tra il 1944 e il 1945 circa 14.000 uomini, donne e bambini dovettero lavorare per la REIMAHG; almeno 2000, ma probabilmente fino a 3000 di loro morirono.

A partire dall’aprile del 1944 vennero deportate soprattutto persone dall’Italia, dall’Unione Sovietica, dalla Slovacchia, dal Belgio, dalla Polonia, dall’Ucraina, dalla Francia e dalla Yugoslavia. Dall’Unione Sovietica, dalla Polonia e dall’Ucraina vennero deportati anche donne, adolescenti e bambini.

Attorno al Walpersberg si costruì diversi lager. All’inizio i deportati e le deportate vennero sistemati anche nella città stessa di Kahla, in alberghi, ristoranti e sale pubbliche. Col tempo nacquero i 28 lager principali e secondari. Tanti dei deportati e delle deportate dovettero costruire i loro propri lager. Fino alla fine dei lavori dovettero dormire all’aperto o nelle gallerie.

La deportazione alla REIMAHG

condizioni di vita e di lavoro.

Mappa dei lager principali e secondari della fabbrica di armamento REIMAHG.
Fonte: Archivio Markus Gleichmann.

Francesco Gervasoni

Francesco Gervasoni nasce nel 1904 a Settala vicino a Milano. Con sua moglie Maria Moneta ha due figli: Germano, nato nel 1933, e Bruno, nato nel 1940.

Per il 23 novembre del 1944 il movimento sindacale clandestino proclama lo sciopero, in cui partecipano anche gli operai della fabbrica dove lavorava Gervasoni.

In seguito circa 180 operai vengono arrestati da un’unità tedesca e forzati di firmare il loro impiego volontario nel Reich tedesco.

Il 28 novembre del 1944 vengono deportati da Milano in vagoni merci chiusi. Quando il treno passa per Vignate, il paese di Gervasoni, rallenta la velocità, in modo che gli arrestati possono informare i loro famigliari sulla loro deportazione. Gervasoni butta un foglio scritto dal vagone, che un vicino porta a sua moglie e suoi figli.

Gervasoni viene portato a Kahla il 7 dicembre del 1944. Tre mesi dopo, il 27 febbraio del 1945 muore. Viene seppelito nella fossa comune nel cimitero di Kahla. Poiché da allora la moglie deve sostenere la famiglia i bambini di undici e quattro anni devono essere portati in un collegio.

Il 14 luglio del 1944 le autorità tedesche proclamarono che la popolazione sarebbe stata evacuata.
A chi si fosse sottratto spettava la pena di morte.

Sui binari nella Via Kowelska misero dei vagoni merci. In questi vagoni vennero cacciati gli abitanti di tutta la città.

[…] da bambino mi ricordo che ciò fu un’immagine terribile per tutti noi. Le cose personali,
impacchettate svariate volte prima spesso dovevano restare fuori perché era prevedibile che non eravamo capaci di trasportare il bagaglio. […] Io all’epoca avevo 11 anni, il fratello 16, la sorella 14 e la
sorella minore aveva tre anni. Tra Włodzimierz e Poznań non ricevemmo niente da mangiare. Mi rircordo che durante la sosta a Varsavia e Bydgoszcz gli abitanti di queste città sporadicamente portarono del latte per i bambini. Il viaggio a Poznań durò due settimane. […] I vagoni erano sovraffollati e c’era la puzza di corpi non lavati e di sporcizia. Non c’era nessuna possibilità di sdraiarsi. Dormivamo seduti sui nostri bagagli.

I bisogni fisiologici si metteva in un pezzo di carta o una pezza,
e poi il tutto veniva buttato fuori dalla finestra inferriata. L’urina venne smaltita tramite la fessura alle porte del vagone. Il
momento più duro fu l’inizio del viaggio.

Il treno ci portò nello sconosciuto. Il giorni furono incerti, e ignoto fu il destino.

Fonte: Jan Steo sulla sua deportazione a Kahla.

»Cara Maria,
io parto per il mio destino. Auguri a te e bambini, baci a tutti ciao baci. Cara Maria, vai in ditta a ritirare i soldi e il pacco e la borsa del pane e la cintura dei pantaloni. Saluti e baci a tutti il tuo caro Francesco. Baci a te e i figli.«

Fonta: La notizia di Francesco Gervasoni alla sua famiglia:

Il primo lager nacque nel Rosengarten, la casa del sindacato a Kahla.
Fonte: Archiv GF Walpersberg e.V.

Jan Steć

Jan Steć nasce l‘8 aprile del 1933 a Wolodymyr-Wolynskyj (oggi Ucraina). Il territorio della Polonia, al quale appartiene la città, nel 1939 viene occupato dall’Armata Rossa, nel 1941 dall’esercito tedesco. Con il ritiro tedesco nel luglio del 1944 la popolazione viene deportata verso ovest; la famiglia Steć viene portata nel Lager II della REIMAHG. Il padre e il fratello maggiore, Stanisław, devono lavorare nelle gallerie e nei bunker di montaggio; la madre deve spostare la terra da vagoni della ferrovia su autocarri.

La sorella Teresa, nata nel 1930, si occupa dei bambini di altri lavoratori coatti e lavoratrici coatte e lavora in cucina. Jan Steć e sua sorella minore Maria soggiornano soprattutto nell’area del lager. A undici anni si occupa della sua sorella di tre anni e mendica qualcosa da mangiare nei peasi dei dintorni.

Poco prima dello sgombero del lager la famiglia fugge assieme ad altri nel bosco al dì sopra al lager. Si nascondono tre giorni prima di tornare nel lager, tormentati dalla fame. Facendo così riescono ad evitare di dover partecipare alle marce dello sgombero. Subito dopo vengono liberati dagli americani. In totale la famiglia passa nove mesi nel Lager II. Circa mezz’anno dopo tornano in Polonia, ma la loro città natale, ormai sovietica, resta per loro irraggiungibile.

Le condizioni di lavoro presso la REIMAHG

I lavoratori coatti e le lavoratrici coatte dovettero costruire l’infrastruttura del trasporto, allargare il sistema delle gallerie, costruire dei bunker e lavorare nel montaggio degli aerei. Gli orari di lavoro erano di 10, 11, a volte anche 12 ore al giorno o persino di più. Raramente alle deportate ed ai deportati erano assegnati dei lavori a lungo termine: a volte ottenevano lavori relativamente facili, a volte – colpiti di botte – dovevano eseguire lavori quasi irrealizzabili. Loro stessi avevano poche possibilità di influenzare il loro posto di lavoro.

Si cominciava tra le 4 e le 6 di mattina. Secondo la posizione del proprio lager, bisognava camminare anche 10 chilometri per raggiungere il posto di lavoro.

Nella maggior parte dei casi le scarpe e i vestiti dei deportati e delle deporate erano inadeguati. Pause non venivano quasi mai fatte. Anche gli adolescenti e le donne dovettero eseguire lavori pesantissimi. Soprattutto nelle gallerie avvenivano incidenti gravi, a volte letali.

In teoria le deportate e i deportati ricevevano una paga, in realtà però la maggior parte di loro prendeva massimo un terzo della paga. Un problema ulteriore fu che per la gran parte di loro
non fu possibile acquistare molte cose in modo legale e che i prezzi del mercato nero erano altissimi. Molto raramente i superiori si comportarono in modo umano o solidale; maltrattamenti erano all’ordine del giorno. Si lavorava in un clima di paura da digiuno e di violenza.

Giuseppe Lino Rosoni

Giuseppe Lino Rosoni nasce nel 1926 a Vicenza. Nel maggio del 1944 a 17 anni viene chiamato alle armi dall’esercito della Repubblica Sociale Italiana. I medici italiani lo riformano, ma i medici tedeschi gli attestano di essere abile per il lavoro forzato nella Germania nazista. Viene deportato a Kahla dove all’inizio è sistemato nel Rosengarten. Deve lavorare tra l’altro nelle gallerie del Walpersberg. Durante le marcie della morte riesce a fuggire. Nel luglio del 1945 raggiunge Vicenza.

»Il lavoro consisteva nel fare gallerie. Abbiamo traforato in lungo e largo una collina. All’inizio picco e pala […]

poi arrivati al sodo si usavano la perforatrice e la dinamite. Ci sono stati crolli, diversi amici sono rimasti sotto, ma non ci si poteva fermare. Avanti sempre! Schnell! E si camminava sul corpo degli amici rimasti sepolti.«

Rapporto di memoria Giuseppe Lino Rosoni

Serie di fotografie sulla costruzione di un impianto per giardinaggio nell’inverno del 1944. I lavori furono soprattutto eseguit eseguiti da lavoratrici e lavoratori dall’Europa dell’est. Fonte: Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Le condizioni di vita nei lager della REIMAHG

Tenda da cucina nel lager 8 al lato nord del Walpersberg.
Fonte: Eredità Ernst Große, Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Balilla Bolognesi

Balilla Bolognesi nasce il 2 ottobre del 1921 nell’Italia centrale. A 17 anni si trasferisce nell’Italia settentrionale per lavorare in una pelletteria. Si arruola nel 1941. Dopo l’invasione dei tedeschi nel settembre del 1943 torna nel suo paese natale Esanatoglia. Durante un rastrellamento contro disertori e partigiani vengono uccise varie persone, quattro case vengono fatte saltare in aria, tra cui quella della sua famiglia.

Balilla viene deportato assieme a suo fratello e suo cugino. Arrivano a Kahla il 28 maggio 1944, poche settimane dopo l’inizio dei lavori.

Bolognesi deve lavorare nelle gallerie, alla costruzione dei bunker e della pista di decollo sulla montagna. Nell’estate del 1944 conosce la famiglia Hubl di Kahla, che gli rimane affianco da quel momento in poi.

Poco prima dello sgombero dei lager della REIMAHG Bolognesi e suo fratello tentano la fuga. Quattro giorni dopo si imbattono in un gruppo di soldati americani. Soltanto a fine luglio del 1945 riescono a tornare in Italia.

Nel 1979 Balilla Bolognesi viene a trovare la famiglia Hubl a Kahla con la sua figlia Beatrice. Fino alla sua morte nel 2014 parteciperà regolarmente alle commemorazioni per le vittime della REIMAHG.

Le sistemazioni e l’igiene

La maggior parte dei lavoratori coatti e delle lavoratrici coatte dovette vivere nei lager che erano stati costruiti attorno alla collina Walpersberg. Gli edifici e le baracche erano sovraffollate, non c’erano letti in numero sufficiente, e in parte le persone erano costrette di dormire sulla paglia. Gli alloggi erano sporchi e pieni di parassiti e scaldati male d‘inverno. Tanti dei tetti non tenevano l’aqua. Non c’era nessun tipo di privacy. In più c’erano due lager di punizione, nei quali i deportati e le deportate venivano mandati per motivi banali. Vi avvenivano maltrattamenti atroci.

Nei lager non esistevano latrine. Costretti dalla necessità tanti dei deportati e delle deportate andavano nelle vicinanze dei lager.

Tante persone soffrivano di diarrea, e a volte non raggiungevano le latrine in tempo. Le guardie spesso reagivano punendole brutalmente. Anche sotto altri aspetti i servizi sanitari presentavano importanti deficienze.

»I WC, i servizi igienici, non sono mai esistiti; per le necessità corporali
c’era una grande buca rettangolare, a cielo aperto,
ai lati una stecconata in legno, dove ci si doveva appoggiare in equilibrio per fare i propri bisogni. Di
impianti per la doccia neanche a parlare, neanche
un semplice tubo all’aperto.

Balilla Bolognesi.

Balilla Bolognesi (sotto a sinistra) con la figlia Beatrice (sopra a sinistra),
Elsbeth Hubl e suo marito Hilmar nel 1979 a Kahla.
Fonte: Elsbeth Hubl.

Alimentazione e abbigliamento

Pochissimi dei lavoratori coatti e delle lavoratrici coatte possedevano vestiti adatti. Alcuni dovevano camminare scalzi persino d’inverno. . Il rifornimento di viveri non era mai sufficiente. Al giorno si ricevevano tra 375 e 500 grammi di pane, un po‘ di grasso, marmellata o simile più
un litro di zuppa allungata. Per la razione gli affammati spesso dovevano fare ore di fila. A volte il cibo distribuito non bastava per tutti ed era immangiabile.

Servizi sanitari

Soltanto dopo alcuni mesi si creò una specie di servizio sanitario per i lager della REIMAHG. Nei lager maggiori esistevano delle stazioni sanitarie, e a partire dal novembre del 1944 si usò l’ospedale proprio nel castello di Hummelshain. Le deportate e i deportati però dovettero risiedere nelle baracche nel parco del castello le cui condizioni erano peggiori. Medicinali e materiale sanitario mancavano sempre. I malati ricevevano la metà della razione giornaliera, venivano maltrattati e uccisi. Perciò tanti dei deportati e delle deportate non comunicavano la propria malattia alle autorità. A volte venivano anche respinti dal personale dei centri sanitari. Malattie infettive come la dissenteria, la difterite, la tuberculosi e il tifo esantematico si diffondevano in un batter d’occhio.

»13 agosto del 1944:

Di domenica prendavamo la nostra razione:
500 grammi di pane bianco e del burro. Il lager era sorvegliato da soldati, ma dentro potevamo muoverci. Non avevamo dell’acqua potabile (solo a volte da un ruscello), nessuna cucina, niente luce, niente gabinetti, niente. Ma dormivamo all’asciutto. Il lager non era ancora pronto. E poi vedevamo la miseria: i russi e gli italiani giravano come animali selvaggi, in cerca di mozziconi (una sigaretta = un marco).«

Dal diario di Marcel van den Steen.

Marcel van den Steen

Marcel van den Steen nasce nel 1921 a Wetteren nelle Fiandre in Belgio. Dopo la scuola lavora nella vivaio di piante arboree di suo padre. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale è soldato nell’esercito belga. L‘8 agosto del 1944 viene arrestato dai poliziotti tedeschi. Quattro giorni dopo arriva nel lager E vicino a Eichenberg nelle vicinanze di Kahla. Tra le altre cose Van den Steen deve lavorare nelle gallerie. Durante tutto il tempo della sua prigionia riesce a scrivere un diario. Il 4 aprile del 1945 riesce a fuggire dal lager. Fino all’arrivo dell’esercito americano si nasconde nei dintorni per una settimana. Van den Steen muore nel 2006.

»Poi c’era una baracca, che pomposamente era chiamata infermeria; era arredata con un tavolo, una sedia e uno scaffale che, destinato a contenere i medicinali, almeno i più necessari, era invece sempre vuoto. Non esisteva un’aspirina, un cachet contro il mal di denti; c’era qualche benda di carta, dell’iodio e la pomata di zolfo contro la scabbia, che durante l’estate colpì parecchi lavoratori, data la promiscuità e la mancanza di igiene. Era adetto un dottore deportato, perugino, che quando avevi bisogno, ti visitava, ma non poteva che darti consigli, perché medicinali non ce n’erano.

Poi c’era la baracca n. 9, la baracca dei morituri che, a partire dell’autunno, divenne molto frequentata; vi erano destinato gli »unfähig«, inabili, perché ormai ridotti agli estremi, a scheletri, consumati, il più delle volte dalla dissenteria, la tbc, da edemi, da deperimento organico; oramai non servivano più all’economia di guerra del Grande Reich e, perciò, non rendendo, non dovevano essere curati, ma lasciati morire lentamente, senza pietà alcuna.«

Balilla Bolognesi

Una delle barache per cure sanitarie al castello di Hummelshain.
Fonte: Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Condizioni di lavoro e di vita

condizioni di vita e di lavoro.

Servizi sanitari

Soltanto dopo alcuni mesi si creò una specie di servizio sanitario per i lager della REIMAHG. Nei lager maggiori esistevano delle stazioni sanitarie, e a partire dal novembre del 1944 si usò l’ospedale proprio nel castello di Hummelshain. Le deportate e i deportati però dovettero risiedere nelle baracche nel parco del castello le cui condizioni erano peggiori. Medicinali e materiale sanitario mancavano sempre. I malati ricevevano la metà della razione giornaliera, venivano maltrattati e uccisi. Perciò tanti dei deportati e delle deportate non comunicavano la propria malattia alle autorità. A volte venivano anche respinti dal personale dei centri sanitari. Malattie infettive come la dissenteria, la difterite, la tuberculosi e il tifo esantematico si diffondevano in un batter d’occhio.

Janina Przybysz

Janina Przybysz venne deportata alla REIMAHG dopo la Rivolta di Varsavia nel 1944 con suo marito e suo figlio. Tutti e tre sono sopravvissuti al lavoro forzato nelle vicinanze di Kahla. È indicativo per la situazione dei lavoratori coatti e specialmente delle lavoratrici coatte nel dopoguerra che di Janina Przybysz non si sappia quasi nulla. Eppure propio perché ne sappiamo pochissimo della sua vita segue un suo raro racconto.

»La vita nel lager proseguiva in modo monotono. Dal lunedì al sabato si lavorava dodici ore. La domenica libera si usava per riposare e per l’igiene personale.

. I miei come tutti gli altri dovettero occuparsi dei bambini, lavarsi sotto le condizioni difficili, lavare e spidocchiare i vestiti – tutti ebbero i pidocchi.

Per i genitori era l’unica possibilità di parlare con i bambini e di dargli dei consigli per il comportatmento nella settimana seguente. All’inizio mentre i genitori lavoravano, dovevo prendermi cura della mia sorella minore (quattro anni) anche se anch’io avrei avuto bisogno di cura. Più tardi la sorella era nella cosi detta »custodia« per i bambini più piccoli.

La domenica era l’unico giorno della settimana per potersi mettere in contatto tra genitori e bambini, perché quando i genitori andavano al lavoro essi dormivano ancora, e quando tornavano, erano già a letto di nuovo.«

Jan Steć.

Lavoratrici coatte stanno costruendo un impianto per giardinaggio vicino a Großeutersdorf. Fonte: Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Resistenza e solidarietà

Presso la REIMAHG non esistette resistenza organizzata, ma la solidarietà, anche tra persone provenienti da paesi diversi. Secondo i racconti i deportati si aiutavano a vicenda scambiandosi soldi per salvarsi dalla pena corporale, procurandosi del cibo e dividendo le cose con i più deboli. C’erano anche piccoli atti di sabotaggio. Per esempio i deportati mescolarono troppa sabbia nel cemento o danneggiarono delle betoniere. Soprattutto verso la fine della guerra aumentarono i tentativi di fuga.

»Prima di partire ci venne chiesto se c’era qualcuno in grado di fare il pane. Uno di noi, Remo di Gallio, rispose affermativamente per cui restò in paese a lavorare nella forneria e ogni tanto riusciva a passarmi del pane di nascosto, che io mangiavo oppure usavo come merce di scambio.«

Lino Rosoni

Maltrattamenti e omicidi

In quell’anno in cui esistette la REIMAHG morirono sino a 3000 persone a causa delle condizioni di vita e di lavoro disastrose, dei maltrattamenti, degli omicidi e delle marce della morte. La cifra precisa dei morti non è verificabile. Ciò che è chiaro, è che furono di più che in altri lager di lavoro coatto. La morte al lavoro, durante la cura medica, lo sgombero dei lager e le seguenti marce della morte era calcolata. Almeno qualche dozzina di persone morì per le botte o colpi di pistola.

»Notevoli furono le angherie dei capi politici contro i deportati nelle vicinanze del fiume. Tornavamo esauriti, stanchi e affammati dal lavoro nei lager. Il sentiero che portava al lager correva al di sotto di una montagna. Perciò ognuno cercava la via più corta e più comoda per arrivare prima al lager per potersi riposare. Si poteva accorciare la via usando una passerella sul fiume che passava direttamente al lager. Giusto sotto questa passerella si nascondevano i capi politici e sparavano sui deportati che passavano. Sparavano in modo ben diretto dai loro moschetti. Però non lo facevano tutti i giorni, cose che rende chiaro il sadismo dei boia.

Janina Przybysz

Turingia, il vicino

Tra il 1939 e il 1945 fino a un mezzo millione di lavoratrici e lavoratori stranieri e prigionieri di guerra dovettero lavorare in Turingia. In più c’erano dozzine di migliaia di persone deportate nei campi di concentramento.

La violenza contro di loro e lo sfruttamento razzista era visibile a tutti i civili tedeschi. A partire dal 1943 quasi la metà delle deportate e dei deportati lavorava nell’agricoltura. Dovettero lavorare nella diretta vicinanza ed erano direttamente in balia della popolazione.

I racconti dei sopravvissuti parlano di maltrattamenti e dello sfruttamento della situazione, ma anche di umanità e solidarietà. La maggior parte dei tedeschi però era indifferente di fronte alla lotta per la sopravvivenza che si svolgeva davanti ai loro occhi.

L’incontro tra la popolazione civile tedesca e le persone deportate era inevitabile. Sin dall’inizio imprese locali e regionali erano coinvolti nei lavori al Walpersberg. In somma erano circa 120 imprese che in tanti casi avevano alla loro disposizione lavoratrici coatte e lavoratori coatti dalla REIMAHG. La fabbrica di porcellane di Kahla per esempio si faceva fornire la sabbia di porcellane che derivava dall’allargamento del sistema di gallerie. Anche privati si procurarono dei deportati della REIMAHG che in cambio di viveri lavoravano per loro. Altri approfittavano dal traffico illecito di viveri, che il personale della cucina e dell’amministrazione sottraeva dalle razioni dei prigionieri.

Alcuni lager si trovavano direttamente nei oppure in vicinanza dei paesi. In più le deportate e i deportati periodicamente passavano nelle varie località. La popolazione locale poteva osservare le marce giornaliere che passavano per i paesi verso i diversi posti di lavoro.

La sofferenza dei deportati e delle deportate nella maggior parte dei casi veniva ignorata. I sopravvissuti raccontano anche di insulti, minacce e maltrattamenti. A volte però ci fu anche sostegno e aiuto. In rari casi nacquero delle amicizie,

che proseguirono anche oltre la fine della guerra.
Fonte: Eredità Ernst Große, Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Più di 120 ditte furono coinvolte nella costruzione della fabbrica di armamento.
Fonte: Bundesarchiv. Raccolta di fotografie
della »Library of Congress«, Washington DC.

»Mio fratello Giuseppe, anche se alloggia nella stessa mia baracca, non sempre lavora con me; così succede anche per mio cugino Walter, che da più di un mese è stato adibito al trasporto di binari per linee ferroviarie, un lavoro pesantissimo e massacrante […]. Era molto deperito e sfinito, povero ragazzo. Così mi disse: »Ho conosciuto a Kahla una famiglia Tedesca molto umana che in cambio di qualche piccolo lavoro che ho voluto fare (riassetto merce, aiuto nella sistemazione dei prodotti, eccettera)
mi ha dato del pane o altri viveri; io non posso più recarmi a Kahla perché non mi sento bene; vai tu da quella brava Signora. Si chiama Margarethe ed ha il negozio di alimentari in Roßstraße, 8«. Appena mi fu possibile mi recai in quel negozio; attesi che non ci fosse nessuno, dissi alla Signora Margarethe che ero il cugino di Walter e che ero venuto al suo posto, perché lui non stava bene in salute; ne fu molto dispiaciuta. Chiesi se c’era lavoro da fare; feci qualche piccolo trasporto di merce; poi lei mi dette del pane ed altri viveri per me, mio cugino e per mio fratello.

Nonostante il divieto della Polizia questa Signora, suo figlio Hilmar e la Signora Anna, mi hanno dato aiuto, viveri, parole di conforto, non solo a me, ma anche a Poggi Mario di Gubbio, ad un altro Italiano, a mio cugino Walter ed a tante altre persone, solo a scopo umanitario. Quando nel 1979 sono ritornato a Kahla per ritrovare questa famiglia […], sono stato accolto con grande affetto dalla famiglia intera […].

Balilla Bolognesi

I responsabili

Per le sofferenze delle deportate e dei deportati alla REIMAHG furono responsabili diverse persone: il Plenipotenziario generale per l’impiego della mano d’opera, Fritz Sauckel, i capi dei vari lager, i capi delle colonne e le guardie, ma anche i responsabili dell’economia e della politica oppure gli appartenenti agli organi della giustizia. Anche il comportamento della popolazione civile, dei capi al lavoro, degli impiegati tedeschi e dei giovani della Hitlerjugend fu cruciale per la vita e la
sopravvivenza delle deportate e dei deportati.

Le guardie erano tedeschi del Reich e cosidetti »Volksdeutsche«, cioè appartenenti a minoranze di lingua tedesca d’altri paesi. Il loro numero esatto è difficilmente rilevabile. Le persone deportate all´inizio venivano sorvegliate da appartenenti dell’esercito, la Wehrmacht, più tardi da appartenenti dalle SS, ma anche dalla polizia e dalle SA. Le guardie e le imprese avevano vasta libertà nel loro comportamento di fronte alle lavoratrici coatte e ai lavoratori coatti. Talvolta lasciarono trasparire segni di compassione e passarono per esempio ai lavoratori dei viveri. Fondamentalmente le deportate e i deportati però furono continuamente esposti alla violenza delle guardie. Tanti racconti parlano di maltrattamenti, anche di donne e giovani, di violenza sessuale, ritiro di cibo, trasferimenti nei commando di lavoro più pesante oppure di assurdi lavori punitivi.

Impiegati tedeschi presso la REIMAHG

Per l’allargamento del sistema delle gallerie si ebbe bisogno di lavoratori specializzati. In parte per servire la REIMAHG venne chiamata mano d´opera direttamente dal fronte o dalle grandi aziende dell’industria mineraria. In più c’erano artigiani originari del posto, lavoratori per il trasporto e detenuti obbligati al lavoro.

La sorte dei lavoratori tedeschi non è paragonabile a quella dei deportati da altri paesi. Non tutti i tedeschi lavorarono volontariamente presso la REIMAHG, ma ricevettero una paga adeguata e supplementi che per i lavoratori stranieri non esistevano.

Fino agli ultimi momenti i tedeschi fecero domanda volontariamente per un posto alla REIMAHG. Esso dava numerose possibilità: per esempio si poteva approfittare di supplementi finanziari di alcool e tabacco e diversi premi. Lavorando alla REIMAHG si poteva anche evitare la chiamata alle armi. Alcuni lavoratori se la goderono ad umiliare e maltrattare deportate e deportati.

Ho visto come un altra deportata è stata picchiata in modo violentissimo dal tedesco che ci sorvegliò perché aveva portato un paio di patate per suo figlio malato che a causa della sua malattia ricevette solo metà razione. Dovemmo portare la donna nel lager su una barella perché non riuscí più a camminare. Siamo anche stati denunciati dai tedeschi. Per esempio un giorno uno dei tedeschi che ci sorvegliavano ci permise di portare via un paio di patate per il lavoro compiuto. Dopo la nostra uscita informò la polizia che avremmo rubato le patate. In questura dopo la perquisizione siamo state insultate in un modo umiliante per la nostra dignità da persona e da donna. Una di noi che aveva preso più patate delle altre è stata picchiata in faccia. Quando siamo uscite un poliziotto ci disse che in caso che succedesse di nuovo saremmo state fucilate.

Janina Przybysz

Fritz Sauckel

Fritz Sauckel ebbe un ruolo centrale per la REIMAHG. Nato nel 1893 a Haßfurt in Baviera, nel 1927 divenne Gauleiter del NSDAP, cioè capo di una suddivisione amministrativa dello stato, in Turingia. Con questa funzione e in più come capo del governo regionale della Turingia e presidente della Fondazione Gustloff era uno degli attori più importanti dell’industria degli armamenti turingese. Nel suo ruolo come Plenipotenziario per l’impiego della mano d’opera a partire dal 1942 fu responsabile per la deportazione di migliaia di persone nel territorio del Reich, tra esse i circa 14.000 lavoratori coatti e lavoratrici coatte della REIMAHG. Ai processi di Norimberga fu condannato alla pena di morte.

»4 settembre del 1944:

Lunedì: Tutto diventa molto severo. A mezzogiorno abbiamo visto come due russi sono stati
picchiati perchè stavano cagando. Dovevano grattare i loro escrementi dal suolo e portarlo via per prendere delle botte di nuovo al ritorno. La sera
vedemmo cinque belgi fuggiti, le braccia in aria. Non dovevano parlare.
Per sfortuna un ragazzo ha girato la sua testa a sinistra e cominciarono a
picchiarlo in un modo che gridammo e ci scatenammo. Hanno
fatto un salto verso di noi, ma sono scappato subito, perché di botte non ne volevo più sapere.

Dal diario di Marcel van den Steen.

Karl Pflomm

Karl Pflomm era Capo delle SS al Walpersberg e quindi il responsabile principale per i maltrattamenti e le esecuzioni. Nato nel 1886 a Reutlingen nella regione di Baden-Württemberg già nel 1930 divenne membro delle SS. A partire dal 1936 fu presidente della polizia di Weimar, più tardi di Erfurt e di Dresda. Nella Cecoslovacchia occupata era coinvolto nella costruzione della struttura della polizia tedesca. Nel dicembre del 1944 arrivò alla REIMAHG, presto divenne direttore. Con questa funzione fu responsabile per le condizioni di vita catastrofiche e quindi per la morte di migliaia di persone. Poco prima dell’arrivo dell’esercito americano tolse la vita a se e a tutta la sua famiglia.

»Mentre i Kapò, i sorveglianti politici, i Nazisti convinti, diventano più cattivi e senza pietà, tra i Meister (Tedeschi non militari, per la maggior parte arruolati dal Fronte del Lavoro e provenienti dalla Renania) ci sono delle persone abbastanza comprensive, stufe della guerra, disposte a colloquiare sulla situazione, qualcuno ci incoraggia a resistere, perché si prevede prossima la fine della guerra.«

Balilla Bolognesi

L’impiego della gioventù nazista presso la REIMAHG

Dopo che tutte le altre organizzazioni di giovani furono vietate, la gioventù nazista, la Hitlerjugend, rimase l’unica associazione giovanile nel nazionalsocialismo. A partire dal 1939 l´iscrizione era obbligatoria, quasi tutti i giovani ne fecero parte. L’obiettivo era la formatura ideologica dei giovani. Nel corso del tempo il servizio nella Hitlerjugend venne sempre più militarizzato.

Soprattutto negli ultimi anni di guerra la Hitlerjugend era una delle poche fonti di forza lavoro. Anche migliaia di giovani della Hitlerjugend dovette lavorare per la REIMAHG – una mobilitazione di massa di giovani in questa forma esistè solo alla REIMAHG. Furono impiegati soprattutto le annate del 1928 e 1929. Il rifornimento medicinale e le condizioni di vita dei giovani furono peggiori rispetto a quelle dei lavoratori tedeschi.

Presso la REIMAHG la Hitlerjugend giocò un ruolo contradditorio: da una parte il servizio per i giovani fu obbligatorio, dall’altra non pochi di loro trassero vantaggio dalla loro posizione di potere. Dei sopravvissuti raccontano come dei giovani della Hitlerjugend li denunciarono, vessarono, picchiarono e gli gettarono dei sassi.

dopo lo sgombero del lager fu scortato da giovani della Hitlerjugend.
Fonte: Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Nel lager A nella valle Zwabitztal vennero sistemati provvisoriamente membri della gioventù nazista, Hitlerjugend e Bund deutscher Mädel.
Fonte: Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Un giorno, in una di queste numerose gallerie, è avvenuto un altro fatto disumano. Come già detto, soffrivamo tutti di enterocolite, con relativa diarrea e, quando all’improvviso sentivi il bisogno, non c’era verso, dovevi trovare qualche posto; un nostro compagno di Tolentino scappa di corsa, va in un ramo isolato di un’altra galleria; combinazione, transitano da quelle degli Hitlerjugend; lo trovano in quella posizione e, nonostante le preghiere del povero ragazzo, lo costringono ad »assaggiare« quanto aveva fatto, deridendolo..«

Balilla Bolognesi

violenza, assassinio, liberazione

A partire dall’estate del 1944 – in considerazione della fine attendibile della guerra sempre più deportate e deportati fuggirono dai lager e provarono di cavarsela da soli. La Gestapo prese il permesso di eseguire delle esecuzioni a propria responsabilità. Mentre le esecuzioni di massa si svolsero soprattutto nei boschi o nei cosidetti lager per l‘educazione al lavoro, delle esecuzioni singole vennero eseguite anche direttamente davanti agli occhi della popolazione. In parte le esecuzione vennero svolte anche da persone civili.

L‘8 aprile la maggioranza delle deportate e dei deportati della REIMAHG venne spinta verso est. In parte i gruppi si mescolarono con le marce della morte provenienti da Buchenwald. L’12 e il 13 aprile l’esercito americano raggiunse i lager della REIMAHG; il 13 vennero liberate le persone nelle baracche dell’ospedale di Hummelshain. Nel luglio del 1945 gli impianti della REIMAHG passarono all’Armata Rossa, che tra il 1946 e il 1947 tentò di renderli inutilizzabili.

Soldati americani durante l’avanzata vengono a sapere della morte
morte del presidente Roosevelt.
Fonte: National Archives Washington.

Quando cominciò l’evacuazione mi accorsi che il nostro gruppo era accerchiato dalle SS con i loro cani. Per me e le altre persone che vissero in questo lager l’evacuazione fu l’evento più importante e terribile.

Sotto le grida delle SS, i gemiti di uomini e donne che venivano picchiati e l’abbaiare dei cani venimmo suddivisi in gruppi di 200-300 persone e spinti verso Orlamünde. Era il 9 aprile alle ore 22 e fu uno scenario infernale. I cani assalivano quelli che uscivano dalla fila. Quelli che rimanevano indietro venivano picchiati dalle SS con i moschetti. Circa 4 chilometri dopo Orlamünde cominciarono a sparare. Solo verso la mattina, quando le SS, come ci accorgemmo, non c’erano più fummo condotti dal Volkssturm, ci permisero di riposare.

Nel corso del giorno arrivammo poi in un paese, Knau. Qui vissi dei momenti terribili. Mio marito era esausto e non riusciva più ad andare avanti. Cadde sulla strada e svenne. Il tedesco che ci stava sorvegliando alzò il moschetto e stava per sparagli. La popolazione civile tedesca però glielo impedì.

In questo paese venimmo trattenuti e sistemati in una baracca di ex prigionieri di guerra sovietici. Lì il 13 aprile siamo stati liberati dall’esercito americano.«

Janina Przybysz

Il 12 aprile la 89esima Divisione di Fanteria dell’esercito americano liberò i lager della REIMAHG e prese in consegna gli impianti.
Fonte: Holocuast Memorial Yad Vashem.

»L’11 aprile venne proclamata l’evacuazione del lager. Dovemmo portare con noi le cose personali – in realtà non c’era quasi niente da portare – e presentarci la sera davanti al portone del lager. Si formò una lunghissima colonna di adulti, vecchi e bambini che marciava verso Orlamünde. Il convoglio venne accompagnato da parecchie persone. Erano armati e sembravano nervosi. La colonna, davvero lunga, si mosse lentamente, le persone non avevano più la forza per una marcia più veloce. Ciò fece arrabbiare gli accompagnatori, si sentivano delle grida, delle urla per far fretta e addirittura degli spari.

Tutti ebbero grande paura e incertezza per il futuro. I bambini piansero, impauriti dal buio e della situazione che non conoscevano. Gli adulti si accorsero velocemente che non erano rimasti molti accompagnatori e che con l’avvenire del buio ci sarebbe stata la possibilità di fuggire.

Il Sig. Naglik, un altro lavoratore coatto propose ai miei ed altri a lui ben conosciuti la fuga nel bosco lasciando la colonna. Marciammo in direzione del bosco su un viottolo di campagna. Ci nascondemmo due giorni e due notti in un bosco di riserva fitto. Nessuno ci cercò, e gli accompagnatori, come si rivelò più tardi, dopo alcune ore di marcia scapparono, lasciando le persone in strada.

La maggior parte delle famiglie tornò nel lager. Nel bosco, dove ci eravamo nascosti, stavamo abbastanza bene. Dormimmo sul suolo asciutto del bosco e ci coprimmo con i nostri vestiti. Quando ci avevano condotti fuori dal lager non avevamo ricevuto neanche un pezzo di pane. Dopo due giorni e notti eravamo talmente affamati che decidemmo di tornare nel lager.

I tedeschi non c’erano più. In cucina trovammo delle rape da foraggio e di queste rape si nutrirono tutti.

Jan Steć.

Persecuzione penale, elaborazione storica e risarcimento

Per la prima volta il lavoro coatto è stato accusato come crimine contro l’umanità durante i processi di Norimberga nel 1946. Parecchi degli imputati principali furono condannati a pene alte per via della loro responsabilità per l’organizzazione del lavoro forzato.

Nei processi seguenti però vennero pronunciate delle sentenze lievi. Fritz
Sauckel nell‘ambito dei processi di Norimberga venne condannato a morte, il suo ruolo alla REIMAHG però non venne considerato. Oltre a ciò quasi nessuno dei responsabili per i crimini compiuti alla REIMAHG è stato chiesto conto. Karl Pflomm si sottrasse
alla pena suicidandosi. Parecchi degli impiegati di alto rango della REIMAHG fuggirono nelle
zone d‘occupazione occidentali e non sono mai stati citati in giudizio.

I pochi processi finirono con pene lievi oppure assoluzioni. Una rielaborazione dei crimini compiuti alla REIMAHG non ebbe luogo.

L´atteggiamento istituzionale nei confronti delle lavoratrici coatte e dei lavoratori coatti variava da paese a paese; resta il fatto che solo in poche società del dopoguerra furono visti come vittime. Nell’Unione Sovietica per esempio erano sospettati di aver collaborato con i tedeschi. In parte sono stati deportati nei gulag. La maggior parte delle poche persone ebree sopravvissute dall’Europa centrale e orientale emigrò. Soltanto 56 anni dopo la liberazione nel 2001 delle deportate e dei deportati sono stati risarciti; tanti però non ricevettero mai niente. Anche solo una minoranze delle ex lavoratrici coatte e degli ex lavoratori coatti della REIMAHG ha ricevuto dei risarcimenti. Non pochi di loro dopo il ritorno nei loro paesi nativi vissero in grande miseria. Tanti dei sopravvissuti per tutta la vita soffrirono di problemi psichici e fisici causati dalla deportazione e dal lavoro forzato.

Domanda di risarcimento di Lino Rosoni di 2001.

Fritz Sauckel fu uno degli imputati principali ai processi di Norimberga e fu condannato a morte.
Fonte: National Archives Washington.

»Il ritorno in patria è stato deludente per noi; soltanto nelle nostre famiglie abbiamo trovato conforto e comprensione, perciò è stato meglio tacere per anni su quanto ci era accaduto, perché tanto non si sarebbe riusciti a far capire che cosa sono stati quei lunghi mesi di sofferenza; era meglio chiudere dietro di noi il gran portone che separa dalle tenebre, cercare di sbarazzarsi della grande stanchezza rimasta nelle ossa, del ricordo che mescola rauche voci di comando, del puzzo, bruciore cutaneo, pidocchi, cimici, crampi e gelo in tutto il corpo. Trovammo una situazione di generale indifferenza.

Balilla Bolognesi

»Dopo alcuni mesi prendemmo la decisione più fatale della nostra vita, di tornare a casa. Ad Ansbach ci proposero di emigrare in Canada. Ma l’amore per la patria, per la propria casa e per il paesaggio ci spinse a prendere questa decisione.

 

I miei non sapevano che la nostra Włodzimierz non faceva più parte della Polonia, che la nostra casa sarebbe stata abitata da Ucraini, che non c’era nessuna possibilità di riprendere tutto ciò che dovemmo lasciare al momento della deportazione nel 1944. La seconda guerra mondiale fece cadere la mia famiglia in povertà e fu per sempre la ragione della perdità dei bene materiali e della nostra salute.

 

Verso la fine del settembre del 1945 ci dirigemmo verso la Polonia. Siamo stati delusi in maniera massiccia. Dalle autorità statali per l’impatrio mia famiglia ricevette un documento con il quale niente potè essere risolto. Perciò dopo un soggiorno a Zamość tra il 1945 e il 1948 i miei decidessero ad un viaggio nei territori riottenuti, dove dopo l’insediamento a Zielin Miastecki mio padre trovò un posto nell’azienda agricola statale. Fino alla morte dei miei nessuno ci dette sostegno, e fino ad ora non abbiamo ricevuto nessun risarcimento per i nostri beni lasciati a Włodzimierz Wołyński.«

Jan Steć.

La memoria

Poco dopo la fine della guerra gruppi locali dell’Associazione dei perseguitati del regime nazista (Verband der Verfolgten des Naziregimes) nei comuni dei dintorni eressero le prime lapidi per le vittime della REIMAHG. Nel 1965 fu eretto un monumento direttamente al Walpersberg; più tardi si misero delle lapidi anche in altri luoghi dove prima si trovavano dei lager. ià negli anni cinquanta ex deportate e deportati e le loro famiglie visitarono i resti della fabbrica di armamento; sin dall’inizio parteciparono alle commemorazioni.

Dopo le pianificazioni per l’allestimento di un magazzino di munizione e armi dell’esercito della Repubblica Democratica Tedesca non si poterono più realizzare le commemorazioni direttamente al Walpersberg. Il momumento centrale si installò nella valle del Leubengrund vicino a Kahla, dove prima si trovava una parte dei lager della REIMAHG. Lì ebbero luogo ogni anno l‘8 maggio il giorno della liberazione le commemorazioni ufficiali fino al 1990.

Con la fine della Repubblica Democratica Tedesca l’area al Walpersberg passò all’esercito tedesco.

Soltanto pochi degli abitanti dei paesi limitrofi parteciparono alle commemorazioni. L’impegno di queste persone, di rappresentanti politici locali e di ex deportate e deportati, soprattutto dell’amicale belga »Freundeskreis Lager E«, impedì la dimenticanza degli avvenimenti.

Nel 2003 si fondò l’associazione »REIMAHG e.V.« da cui più tardi nacque »L’associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.«

Dal quell’anno nell’ambito delle commemorazioni ufficiali hanno luogo anche delle deposizioni di corone al Walpersberg. Anche i famigliari degli ex lavoratori forzati seguono tutt´oggi le commemorazioni con viva partecipazione. Nel 2007 l’associazione Walpersberg ha preso in consegna l’areale dell’ex fabbrica di armamento e ha reso possibile l’accesso al pubblico. A Großeutersdorf l’associazione ha aperto un centro di documentazione. Le commemorazioni annuali vengono organizzate in stretta collaborazione con l’amicale, il distretto e i comuni. In più l’associazione offre regolarmente delle visite guidate al Walpersberg, da assistenza per delle

ricerche e progetti scolastici, organizza presentazioni tematiche e convegni storici e risponde alle richieste all’archivio – il tutto a titolo onorario. Con la partecipazione determinante dell’associazione sono nati parecchi progetti internazionali e gemellaggi come diverse pubblicazioni.

Sono benvenuti tutti quelli che si interessano per la storia e le rispettive ricerche o che vorrebbero sostenere l’associazione. Ulteriori informazioni si trovano sul sito www.walpersberg.com. Il centro di documentazione e raggiungibile sotto il numero 0049/(0)36424/784616 oppure con l’indirizzo email buero@walpersberg.com.

Balilla Bolognesi durante la sua prima visita del memoriale nel Leubengrund.
Fonte: Elsbeth Hubl.

I testimoni d’epoca Ermanno Falcioni e Balilla Bolognesi nel centro di documentazione osservano il modello del Walpersberg.
Fonte: Archivio Associazione di storia e di ricerca Walpersberg e.V.

Workshop di giovani di Kahla, Castelnovo ne‘ Monti e Robecco nell’ambito di un progetto internazionale nel maggio del 2018. Con l‘impegno per la memoria sono nate varie collaborazioni tra le scuole e gemellagi.
Fonte: Markus Gleichmann, Associazione internazionale Kahla.

Il lavoro forzato e la libertà di professione oggigiorno

Il concetto del lavoro forzato viene usato in prevalenza nel contesto della storia del nazionalsocialismo; pochissime persone lo collegano con il presente. Ma anche nella società odierna esistono forme di lavoro forzato. Nella costituzione tedesca per esempio è stabilito che il lavoro forzato può essere ordinato ai detenuti.

In più il motto del lavoro forzato appare continuamente nei dibattiti politici in cui vengono discusse rimedi contro persone senza lavoro salariato. Immancabilmente vi trapela il pericolo della relativizzazione del regime del lavoro forzato nazionalsocialista. Al tentativo di mettere il lavoro forzato di allora sullo stesso livello con le misure odierne è da obiettare il criterio decisivo che il lavoro forzato nel nazionalsocialismo fu un mezzo di persecuzione e annientamento di massa.

È un contesto completamente diverso in cui oggi il lavoro forzato viene tematizzato oppure eseguito nelle case circondariali. Ciò nonostante il concetto resta attuale a causa del suo significato costituzionale. Perciò segue un breve riepilogo del ruolo del lavoro forzato nella costituzione tedesca e di alcuni esempi di lavoro non libero nel contesto della regolamentazione statale.

Scelta limitata di professione per detenuti

Anche il sistema giudiziario della Germania odierna non offre tutela illimitata dal lavoro forzato. L’articolo 12 descrive il diritto di difesa contro gli interventi statali nella libertà di professione. Deve assicurare la scelta libera del posto di apprendistato e di lavoro, il loro esercizio libero e tutelare dal lavoro forzato organizzato in modo statale.

Il lavoro forzato nel presente viene definito come la »messa a disposizione della completa forza lavorativa per attività non limitate«. I mezzi statali per la flessione della volontà individuale possono essere di natura fisica o psichica.

La tutela dal lavoro forzato però non è illimitata: contro i detenuti, anche quelli minorenni, il lavoro forzato è una misura legale (articolo 3 della costituzione tedesca). L’articolo 29 del Codice sull‘ordinamento penitenziario dice: »I detenuti, anche minorenni, sono obbligati a esercitare un lavoro o altra attività a loro assegnata e adatta alla loro capacità fisica.«

L’economia approffita del lavoro forzato nei carceri tedeschi e dal fatto che per i detenuti non esistono la previdenza sociale o la paga minima. La casa circondariale di Dresda per esempio fa pubblicità con una »serie di vantaggi« nel caso che l’impresa ricorresse al lavoro dei detenuti: »L’impresa per principio paga soltanto per le prestazioni realmente fornite (prezzo unitario). Non ci sono costi per l’indennità di malattia o altri pagamenti supplementari (sussidio per le ferie, tredicesima ecc.). In più i costi sono ridotti dalle vie brevi del trasporto.«

Articolo 12 della costituzione tedesca:

(1) Tutti i tedeschi hanno il diritto di scegliere liberamente la professione, il posto di lavoro e il posto di apprendistato. L’esercizione della professione può essere regolata da una legge.

(2) Nessuna persona può essere spinta a un certo lavoro tranne nell’ambito di un obbligo di servizio generale e uguale per tutti.

(3) Il lavoro forzato è ammesso soltanto sotto pena detentiva disposta in modo giudiziario.

Pagina Internet della casa circondariale di Dresda
Data di chiamata 08.04.2020

Scelta limitata di professione per persone senza nazionalità tedesca

Anche al di fuori delle carceri la scelta libera della professione è soggetta a parecchie restrizioni statali. Soltanto i cittadini dei stati membri della UE hanno il diritto di appellarsi alla libertà di professione nominata nella costituzione. Cittadini di stati non appartenenti all’UE non possono far ricorso all’articolo 12.

In più le autorità tedesche tramite la legislazione di soggiorno e d’asilo hanno il diritto di intervenire nella scelta del posto di professione e apprendistato. Ciò riguarda soprattutto membri di stati al di fuori dell’UE. Per l’collocamento di persone da questi stati serve il consenso dell’ufficio di collocazione, il quale ha anche il diritto di limitare le categorie professionali in cui queste persone possono esercitare una professione. Con ciò il loro permesso di soggiorno dipende dall‘esercitazione di certe professioni.

Nel caso di persone, la cui richiesta di asilo è stata respinta, ma che per diversi motivi non vengono espulsi, la scelta di professione è ancora più ristretta. Tra l’altro l’espulsione può essere sospesa per la durata della formazione professionale. È ammesso però soltanto un cambio del posto di apprendistato. Se ci sono problemi esiste sempre il pericolo dell’espulsione. Anche in Germania c’erano già

dibattiti sull’introduzione del lavoro obbligatorio per rifugiati. Finora però le rispettive proposte del ministero del lavoro non sono state realizzate. In Austria dal gennaio 2019 è valida la »legge sull’anno di integrazione«, che obbliga rifugiati riconosciuti ad attività obbligatorie nell’interesse dell’economia austriaca. Realmente queste persone devono lavorare anche nella selvicoltura o nell’agricoltura per compensare la mancanze di forza lavoro in questi settori.

Ringraziamenti

La mostra è stata realizzata nell’ambito del progetto »Thüringen 19_19. Demokratie lernen«.

 

Ringraziamo

 

l’associazione »Förderverein Demokratisch Handeln e.V./Thüringen 19_19« e specialmente Maria Gehre per l’aiuto e la presenza continua durante la realizzazione.

 

Radio LOTTE Weimar per la realizzazione tecnica dell’Audio-Guide.

 

Dr. Marc Bartuschka, il cui libro »Unter Zurückstellung aller möglichen Bedenken. Die NS-Betriebsgruppe ‘Reichsmarschall Hermann Göring’ (REIMAHG) und der Zwangsarbeitereinsatz 1944/1945« è una base importante per la mostra e che ci ha aiutato con numerose informazioni, come anche

 

Dr. Harry Stein e Dr. Daniel Logemann del memoriale di Buchenwald e Jens Hild dell’archivio comunale di Großeutersdorf.

 

Ringraziamo di cuore le persone che sono sopravvissute al lavoro forzato presso la REIMAHG e che ci hanno lasciato delle testimonianze. La mostra è dedicata a loro e al loro ricordo. Il nostro più sincero ringraziamento va ai loro famigliari che ci hanno aiutato con la realizazzione della mostra. Un ringraziamento speciale va a Beatrice Bolognesi, Pinuccia Curti e Andrea Rosoni.

 

Fonti

 

I contenuti di questa mostra si basano su proprie ricerche, su consueta letteratura del campo e sui lavori di Dott. Marc Bartuschka (Bartuschka, Marc: »Unter Zurückstellung aller möglichen Bedenken: Die NS-Betriebsgruppe ‘Reichsmarschall Hermann Göring’ (REIMAHG) und der Zwangsarbeitereinsatz 1944/1945, Göttingen 2011).
Le citazioni delle persone deportate risalgono alle seguenti fonti:

 

  • Balilla Bolognesi: Diario di un deportato, Ancona 2004.
  • Francesco Gervasoni: Biglietto originale, gentilmente messo a disposizione da Pinuccia Curti.
  • Giuseppe Lino Rosoni: Un giovane abile alla prigionia, Vicenza 2016.
  • Jan Steć: Scambio di lettere con Dott. Marc Bartuschka, gentilmente messo a disposizione per l’archivio dell‘associazione Geschichts- und Forschungsverein Walpersberg e.V.
  • Marcel van den Steen: Diario di otto mesi di prigionia nel lager Kahla, tradotto da Katharina Dietrich, archivio dell‘associazione Geschichts- und Forschungsverein Walpersberg e.V.
  • Janina Przybysz: Racconto sulle sue esperienze, archivio dell‘associazione Geschichts- und Forschungsverein Walpersberg e.V.

 

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